Fra i Paesi europei, l’Italia è la nazione con il maggior numero di produzioni tipiche agroalimentari. Se guardiamo la lista dei prodotti, scopriamo che, su un totale di 1.137 marchi registrati dall’Unione europea come Denominazione di Origine Protetta (DOP) e Indicazione Geografica Protetta (IGP), sono ben 248 quelli riconosciuti all’Italia, contro ad esempio i 192 della Francia e i 156 della Spagna. A questi, dovremmo aggiungere oltre 500 vini a Denominazione di Origine Controllata (DOC), Controllata e Garantita (DOCG) e a Indicazione Geografica Tipica (IGT).
Ma non finisce qui. Infatti, molti prodotti tipici prodotti nel Bel Paese non sono registrati a livello di Comunità europea perché non hanno le caratteristiche rispondenti alla normativa UE. Già nel 2000, pertanto, il Ministero delle Politiche agricole ha creato un nuovo riconoscimento per tutte queste produzioni che vanno sotto il nome di Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT). Leggo in un comunicato del Ministero del 2010 che il numero di produzioni PAT tre anni fa aveva già raggiunto quasi 5mila denominazioni.
Se ci fermiamo a pensare su questi dati, ci rendiamo conto che si tratta di un patrimonio agroalimentare enorme, considerate le limitazioni territoriali della nostra Italia, lunga e stretta e con poche pianure, rispetto a altre nazioni europee anche più estese. Si tratta di un patrimonio culturale e tradizionale che, senza falsa retorica, mi fa sentire davvero orgoglioso di essere italiano.
Penso alle migliaia di piccole imprese familiari sparse in tutta la Penisola che di generazione in generazione hanno tenuto viva la loro attività e hanno fatto in modo che la loro produzione tradizionale non scomparisse nel grande mare dell’omologazione, della grande distribuzione e della globalizzazione.
Sappiamo che i governi e la stessa Unione europea hanno aiutato e sostenuto le produzioni agroalimentari per decenni. Potranno continuare a farlo in piena crisi dell’euro? Mi stavo infatti domandando cosa sta accadendo ora a tutto questo mondo fatto di pane, pasta e biscotti, verdure fresche e lavorate, salami, prosciutti, carni fresche e insaccati, formaggi; liquori e distillati.
Ho trovato un articolo sul tema pubblicato dal quotidiano Il Sole 24 Ore del dicembre scorso che riassume alcuni dati forniti dall’Ismea, l’Istituto di servizi per il Mercato agricolo alimentare del Ministero delle Politiche agricole. Con un fatturato intorno ai 12 miliardi di euro nel 2011, i prodotti DOP e IGP sarebbero in ottima forma grazie e soprattutto alle esportazioni.
Tuttavia, leggo con perplessità, questi numeri degni di nota sono stati generati dalle vendite di una manciata di prodotti tipici del Bel Paese. Solo cinque prodotti, infatti, hanno contribuito all’84% di tutto il fatturato: Grana padano, Parmigiano reggiano, Aceto balsamico di Modena, Mela Alto Adige e Prosciutto di Parma. Tutti gli altri DOP e IGP, dunque, si spartiscono fra di loro un modesto16%. L’articolo si conclude mettendo l’accento sulla necessità di aumentare le esportazioni e di combattere a ogni livello la contraffazione dei marchi agroalimentari protetti.
In un altro articolo che ho trovato, tratto dalla testata Agricoltura24 de Il Sole 24 Ore, si mette in evidenza, inoltre, un calo di acquisti di prodotti DOP e IGP da parte dei consumatori italiani in relazione alla crisi economica, nonostante la conoscenza dei prodotti tipici da parte dei cittadini sia in aumento. Pare infatti che solo una metà di italiani acquisti un prodotto tipico una volta alla settimana e, se lo fanno, i consumatori sono portati a comprare i prodotti più conosciuti (Grana, Parmigiano, ecc.).
Non ho cultura sufficiente e le informazioni necessarie per addentrarmi ulteriormente in questo argomento, ma ho come la sensazione che, se la congiuntura economica non cambiasse direzione, molte produzioni tipiche potrebbero incontrare serie difficoltà a sopravvivere, specialmente quelle che non sono riconosciute come DOP e IGP o che sono l’espressione di una piccola “nicchia” di mercato.
Immagino, quindi, che di tutti questi aspetti se ne stiano occupando, oltre che le istituzioni, le associazioni di categoria e di tutela dei prodotti, nonché organizzazioni come Slow Food, un ente che gode di tutta la mia stima per l’impegno dimostrato nella salvaguardia delle nostre produzioni agroalimentari.
Nel mio piccolo, l’unica cosa che posso fare per proteggere le produzioni tipiche è di migliorare la mia conoscenza sui prodotti, andando alla scoperta di nuovi, farli conoscere ad altri e condividere le mie esperienze, dedicare la parte che posso del mio budget alimentare all’acquisto di questi prodotti almeno un paio di volte la settimana.
Parlo da consumatore, buona forchetta, bevitore sociale.
Se invece mi metto a pensare alla situazione da affezionato fumatore di sigaro Toscano, le prospettive che sembrano affacciarsi per il futuro mi lasciano ulteriori perplessità. Oltre al timore di dover un giorno rinunciare a prodotti da degustazione che possono rendere una fumata con un Toscano un vero “laboratorio sensuale”, cosa potrà accadere alle nostre piantagioni di tabacco Kentucky che sono un “prodotto tipico e tradizionale” di alcune aree del Paese da secoli?
Il tabacco è infatti una pianta che viene coltivata tradizionalmente in Italia in almeno cinque zone: Veneto, Toscana, Umbria, Lazio e Campania. Tempo fa c’era anche la Puglia, se non erro.
Visto che il fumo fa male (ed è una realtà incontrovertibile), la Comunità europea ha iniziato a diminuire gli aiuti agli agricoltori di tabacco già da anni e in tutti i territori dell’Unione, fino alla completa cancellazione.
Sulla stampa, nel corso degli ultimi anni, più volte ho letto di proteste dei tabacchicoltori contro le politiche agricole europee e mi è sembrato di capire che attualmente l’unico sistema di sopravvivenza delle piantagioni di tabacco sia la firma di accordi di pre-acquisto del raccolto con i produttori di sigarette e di sigari. E in veste di produttrici dello “stortignacciolo”, fatto da secoli con il Kentucky italiano, sono sicuro che le Manifatture del Sigaro Toscano diano tutto il loro impegno e attenzione alla salvaguardia della produzione tabacchicola italiana.
In questo quadro avverso per la coltivazione del tabacco nel nostro Paese, l’unico appoggio alla causa che sono sicuro di poter dare è di continuare a fumare italiano – per me non è un problema perché sono un innamorato del sigaro Toscano – e contribuire, se posso, a far conoscere l’esistenza di una tradizione tabacchicola italiana, insieme alle peculiarità delle diverse zone di coltivazione, ad altri appassionati del fumo lento, includendo alcuni miei amici avanofili “irremovibili”.
Infine, un esempio per me molto azzeccato di questo modo di fare cultura è rappresentato dai Toscanello Scelto Regionali, un prodotto delle Manifatture lanciato l’anno scorso per celebrare appunto le varietà e le differenze delle diverse aree di produzione del Kentucky con cui vengono fabbricati o rollati i sigari Toscani: il Veneto, la Valdichiana, la Valtiberina, il Lazio e la Campania. Spezzo volentieri una lancia in loro favore.
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